Storie vissute (Oggi)


Intervista di Elsa Deyme

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Elsa Deyme in Roux-Poignant.
Contadina, operaia, salariata stagionale in aziende alberghiere, casalinga.

Exilles, 19 Maggio 1993.

Sono nata il 3 Aprile del 1933, in Galambra, in casa; penso assistita da mania Norina Norse, era lei che faceva per il paese. Poi dopo chiamavano l'ostetrica, per scrivere. Ero la prima figlia di Francesco Deyme (1906) e Severina Remolif (1908). Mia mamma era del Deveys, mio papa di Exilles, erano proprio di qua.
Poi, a quattro anni, del '37, ci siamo trasferiti in Francia, perché il papa non aveva lavoro qua; era falegname, era il tempo del fascismo, e allora: o prendere la tessera del fasciame o andare in Francia.
In Francia avevamo due zie, sorelle di mio nonno paterno, allora ci siamo trasferiti là, e mio padre è andato a lavorare nelle miniere, a 900 metri sotto terra. E là, a Saint Etienne, Rue Basson 19, è nata una sorella, nel '39, Giulietta.
Parlavamo francese. E' un ricordo molto bello. Sono stati pochi anni, ma bellissimi. C'era tutto, là; era tutto bello. Era una cittadina, un po' fuori, perché c'erano le miniere; ma papa faceva più di un chilometro per raggiungerle. lo sono stata all'asilo là; la mamma mi portava all'asilo ed andava a lavorare. Faceva ore; andava a stirare, stirava in diverse famiglie, le piaceva stirare.
Poi è nata la sorella, del '39, poi è arrivata la guerra. lo intanto andavo a scuola, avevo sei anni. Era una scuola mista. Là c'erano tante categorie di scuola: quella per operai, quella per... E già, perché noi eravamo stranieri. Lì eravamo in mezzo agli Spagnoli, agli Algériennes, ai mori, c'era tutte... e non era tutto...
E che a mio papa è andata bene, perché era nativo, nativo della Francia; mio papa è nato a Roche le Molliere*, a Lione; altrimenti, guai! Saremmo stati trattati peggio, proprio una differenza! Difatti, tutti gli stranieri giù sotto terra, a 900 metri. Poi, un bel giorno, sono morte quaranta persone; li ho visti io uscire, tutti morti, per un guasto all'elettricità: quaranta ne hanno messi fuori di lì. *(Roche la Molière ovest di Saint Etienne)
Poi il papa, dato che era nativo della Francia e per mezzo delle zie, è uscito e si è messo a lavorare in una grande segheria, sempre nello stesso posto. Del '41 non è che ci hanno espatriato, perché, come dico, il papa era proprio francese e allora non potevano. Però là non si moriva di fame, ma... non c'era più niente. E allora han detto: "Ritorniamo a Exilles, che là abbiamo i campi, abbiamo tutto, la casa, e lavorando...".
E cosi siamo ritornati, nel '41, il 18 Settembre. Io ho incominciato la scuola il 1° Ottobre, qua, facendo la prima classe, incominciando di nuovo tutto daccapo, che io avrei dovuto fare la terza. Combinazione, ho trovato una maestra molto, brava di Pragelato, Guiot mi sembra, che, stando a Pragelato, parlava anche lei un po' di francese, perché io non sapevo proprio più niente di italiano. Noi quattro in casa parlavamo il patois; ma in Francia, con gli altri, si parlava tutto francese; anche gli Algériennes, gli Spagnoli e tutti quanti che ho conosciuto, tutti la lingua francese. Solo in casa si parlava il dialetto o il piemontese, tanto per farsi imparare. Giulietta è arrivata qua che aveva due anni; lei non si ricorda più della Francia. Poi qua sono nati gli altri.
Maria Rosa è nata il 19 Marzo 1942, neanche un anno dopo che eravamo qui. E' da quando è nata quella sorella lì che ho incominciato a trovare lungo io. Dovevo fare, poiché avevamo comperato le capre, le pecore, per dare il latte ai bambini, bisognava andare al fieno, fare i lavori. Io sempre al lavatoio, in Galambra; l'ho passata più lì... Tutto il sapone che ho adoperato io è una cosa pazzesca! Perché avevo nove anni, dovevo andare al lavatoio.
La mamma aveva solo una sorella, che era al Deveys, e parenti... Questa gente qua (i proprietari della casa di Via Roma) che mi hanno aiutato molto. Eravamo ancora parenti, perché erano Deyme, e allora molto, molto ci hanno aiutati. La mia mamma era Remolif, suo papa era di Chiomonte, provenivano da lì. Al Deveys c'era uno zio, che non aveva bambini e aveva un fratello a Chiomonte; allora ha preso quel ragazzo lì, per dargli la casa, la roba. Una volta era così la storia.
In Francia io stavo bene, le zie non avevano figli, ero come una bambola. Quando mi sono trovata qua, ho trovato molto, molto cambiamento. Qua non c'era nessuno. Il papa aveva solo un fratello, che era soldato, partito del '39. Come ho detto, la mamma aveva una sorella, al Deveys, anche lei coi suoi figli, i suoi problemi, e basta. Non avevamo ne cugini, nessuno, erano tutti emigrati in Francia. Tutti partiti per la Francia i miei parenti dalla parte del papa, tutti a Lione-St. Etienne, tutti là.
Difatti, la mia nonna, la mamma di mio papa, che era Marre di cognome, è partita a quindici anni, ha passato l'Ambin, perché non facevano mica la carta d'identità; prendevano un gran fazzoletto, mettevano un po' di roba e passavano lì. Poi, appena scesi di là, me lo raccontava sempre, andavano alla Croix Rouge, dove prendevano tutte quelle ragazze che venivano dall'Italia e le dicevano: "Tu vai di qua, tu vai di là". Doveva essere come un'assistenza sociale: prendevano quelle ragazze e le destinavano in un negozio, di qua, di là. Mia nonna è andata a vendere pesce; l'hanno presa in una famiglia a vendere pesce sul mercato, tutti i giorni, nella città di Lione.
La Croix Rouge era a Modane; come scendevano dalle Alpi, le raccoglievano li. C'erano anche i maschi, che facevano i muratori. Ne sono partiti di qua! Li prendevano di lì, perché li c'erano i Carabinieri, la Finanza: non potevano mica viaggiare per la Francia senza documenti ne niente, eh! Questo dev'essere della fine dell'800, primi del '900. Poi mio nonno e mia nonna si sono sposati in Francia. Si sono conosciuti là, due Italiani, due ragazzi.
Qua non c'era proprio niente a Exilles, niente, niente, niente. Altro che adesso! E famiglie molto numerose! Non c'era lavoro e allora, a quattordici, quindici anni... Non è come adesso, che vai a Bardonecchia, vai nei centri più... Non esisteva. Erano tutti paesini spersi, anche quelli lì.
Dopo Maria Rosa, arriva Laura, il 5 Novembre del '45. Lei arriva a novembre, e li un'altra batosta per me! E io non potevo andare a scuola, con tutto quel pasticcio, con tutti quelli che nascevano lì! Non potevo andare a scuola. Perché la scuola c'era dalle nove a mezzogiorno e dalle due alle quattro, e il martedì ed il sabato: il martedì era musica, allora niente; il sabato, lavoro femminile, e io stavo a casa. In finale, non so se era del '46, io, con tutte queste assenze, avevo un maestro, che veniva da Bari; erano arrivati giovani sposi, per visitare la città di Torino; e poi, a causa della guerra, non hanno potuto più andar giù. Va' a vedere come è andata! E' arrivato a fare scuola qua. Quarta e quinta, ma eravamo quaranta, perché c'erano i collegi di Don Bosco sfollati qui. Due aule in Municipio e una là dalla Giulia, dove c'erano le suore. Questo maestro da solo aveva due classi, quarta e quinta.
Una persona cattiva che non le dico! Ci picchiava, giù botte, a quell'epoca là, c'erano le botte! Si chiamava, T. Camillo, mi sembra. Insomma, questo qui non mi vede andare a scuola il martedì, nemmeno il sabato. Cosa fa? E allora, io dico: "Non posso venire, perché ho i bambini; devo andare al pascolo o ad aiutare la mamma". Allora, prendeva i libri, li buttava, mi ha fatto sanguinare il naso, insomma, tante cose. Si teneva, non si diceva niente, neanche in casa.
Una bella volta mi fa un biglietto: "Essere accompagnata dal padre e dal Sindaco". Padre e Sindaco! E allora Sindaco c'era il Cavalier Humbert; e lui, che conosceva tutta la casa e tutta la faccenda, mi dice: "Non preoccuparti! Vado io dal maestro". Perché non mi accettava a scuola, eh, se non ero accompagnata da padre e Sindaco. E l'indomani mattina mi sono presentata con questi. Sono entrata in classe e mi ha detto: "Vai a posto!". Sono andata al posto e loro hanno parlato nel corridoio. E voilà! Non mi ha bocciata, eh, no! Perché io avevo massimi voti. Andavo anche al pascolo, ma sempre con i libri. Mi piaceva andare a scuola, difatti le mie pagelle le tengo là, come una perla. Tutti nove, dieci.
Mi sarebbe piaciuto andare avanti, anche fare qualche cosa, ma, purtroppo, non si poteva. A quell'epoca là, si poteva fare la sarta; vedevo tutte le altre ragazze del paese che andavano da una famiglia a imparare a cucire; andavano tutte lì, dalla Irma di Remigio, Irma Vazon; faceva la sarta lei e tante ragazzine andavano. Ma io, purtroppo, non potevo nemmeno andare a scuola, altro che andare a far quello, non si poteva. Dopo, sono nati gli altri.
E' nato Franco, il 31 Maggio 1947. Eh, una giornata indimenticabile questa! Perché Franco è nato che era gemello. E si aspettava, per carità, quel ragazzine. Ma era sempre assistita la mamma da mania Nonna, che, a parte Giulietta, ha fatto nascere anche gli altri. Però, non si sono accorti che erano gemelli, e allora? Io ero troppo giovane per capire cosa succedeva, e allora, di corsa, hanno portato la mamma all'ospedale di Susa. Hanno chiamato il dottore di Chiomonte, Ainardi, e con un taxi, anche di Chiomonte, di Loqui Augusto, di corsa, proprio di corsa, eh, perché aveva preso un'emorragia, l'hanno portata a Susa. Lì l'hanno salvata proprio perché... non era la sua ora. E dopo hanno visto, hanno fatto trasfusioni di sangue e hanno tolto il bambino, che era tutto normale e che era stato soffocato dal cordone. E più grosso, più grande, più bello di Franco.
Quando è nato Franco, io avevo quattordici anni; ma non assistevo alla nascita, ci mandavano via, non ci lasciavano. Di corsa hanno portato via la mamma, me la ricordo ancora, piegata in un lenzuolo, via di corsa. Ma il fratellino è rimasto a me, quel bambinetto che pesava forse due chili, piccolino, piccolino. Un momento è andato, poi si è messo a piangere, a piangere! Cosa facevo io? Non avevo niente, non sapevo a chi rivolgermi, perché non avevo nessun parente. Allora, ho fatto bollire acqua, poi, giù col biberon che avevo in casa, acqua con zucchero. Durava dieci minuti, poi piangeva! E allora, era l'ultimo giorno del mese di maggio, il mese della Madonna. Sono andata in chiesa, ho preso acqua benedetta, l'ho battezzato. Perché diventava di tutti i colori, ho detto: "Qua muore! Un fratellino, per carità, non voglio che muoia!". E papà e mamma, non vedevo più nessuno, non sapevo più niente! Fino alle quattro del pomeriggio è durata la storia. Dalla mattina alle sei, alle quattro del pomeriggio, quel bambino ha resistito! Con acqua e zucchero, acqua bollita. E non avevo nemmeno il gas, per far bollire l'acqua; con una stufetta, io, quattordici anni, e l'ho salvato!
Poi, alle quattro, arriva di nuovo il taxi, con mio papa e mania Norma; mi prendono il bambino, dicono: "La mamma si è salvata. Abbiamo fatto trasfusioni. La mamma va, insomma, per il momento. Ha latte, io portiamo giù". Difatti, l'hanno portato giù e... si son salvati tutti e due. E mamma aveva del latte, perché poi, laggiù, il bambino era tanto piccolino che non succhiava tutto, e allora la mamma dava il latte anche a un altro maschietto, delle parti di Novalesa.
E' stata proprio una giornata che non posso dimenticare, no.
A quell'epoca là, abitavamo già a Sant'Antonio.
Per fare il bucato, non c'era conegrina, c'era appena un pezzo di sapone. Bisognava fare cuocere le ceneri della stufa, poi si metteva lì, in un gran tino, si colava e... tre giorni per fare tutto: un giorno per lavare, un giorno per colare, un giorno per risciacquare; si prendeva un grande o con l'acqua bollente, senza sapone, solo le ceneri, però bastava. E profumato: si metteva anche un po' di lavanda, sa, d'estate la si raccoglie; si faceva bollire tutto. Era un lavorone, però la roba era bella e profumata, meglio che adesso, per questo sì. Un gran lavoro, bisognava essere non meno di due. Tutte le famiglie lo facevano, bisognava fare così, non c'era altro sistema.
Poi è nato Gino, il 12 Luglio 1950. Quando è nato lui, il 12, sì che era bella anche quella! Io, il 13, ho preso la sciatica. Ero tanto stanca, avevo diciassette anni, molto giovane e stanca. Bisognava anche andare a bagnare i prati, non solo come è adesso, che si taglia il fieno e poi, ciao! No, bisognava andare a bagnare per fare il secondo fieno; e io sono andata, dalla parte là della ferrovia, in Interdoira ; e tanto ero stanca, che ho messo l'acqua, poi mi sono messa giù lì, un momento a riposare. L'acqua mi è arrivata addosso senza che io la sentissi; ho continuato a dormire. Quando mi sono alzata, ero tutta bagnata, può capire! Quando uno è stanco, a quell'età lì. Sono andata avanti due o tre giorni, poi, un male alla gamba, su, su! Mi hanno portato dal dottore, il quale subito ha detto che avevo la sciatica. E' che camminavo tutta storta, allora papa mi ha portato anche all'ospedale di Susa, a fare le radiografie. Così ci siamo trovate: la mamma nel letto, laggiù, e io sotto, a fare le radiografie. Poi, tornata a casa, ho fatto tutti i giorni un'iniezione, dieci o dodici; veniva Ezio a farmele, allora era un giovane studente di Medicina. Ma non potevo stare a letto, bisognava fare almeno in casa, e Giulietta di corsa, a fare tutti i lavori, andare a lavare, e le bestie, e tutto, doveva scattare, eh! Papa a lavorare, e gli altri... Quando sono rimasta addormentata nel prato bagnato, era pomeriggio, era anche verso la sera, perché, a quell'epoca là, c'erano le ore per bagnare: io tante ore, il mio papa tante ore, poi passava un altro tante ore, anche di notte, eh, con l'acentilena, tutto; io sono andata a portare la cena al mio papa che bagnava i prati, si. L'acqua arrivava dal Coudissard, dal rio.
Per dare il latte ai ragazzi, usavamo il latte di capra, perché è più leggero ed è più buono di quello della mucca, e non parliamo di quello della pecora, che è troppo grasso. Avevamo sempre due se non tre capre tutto l'anno; mungevamo tutti i giorni, mattino e sera, sempre io, quando non c'era la mamma. La stalla era sotto la nostra casa. Avevamo anche cinque o sei pecore, non di più. Le tenevamo per fare gli agnelli, sì, e poi per la carne. Si mangiava tanto di quella carne lì, era cosi, una volta. Si uccidevano mai le femmine, sempre i montoni, piccolini, di un anno o anche di sei mesi. Poi, se c'era qualcosa da vendere, si vendeva anche; c'era anche il macellaio, qui, Burdin, che è stato sempre molto gentile con noi, perché con mia mamma si mettevano d'accordo, ne prendevano sempre la metà: metà si vendeva, l'altra metà era per noi; così la carne era sempre fresca anche per noi, e c'era sempre quei quattro soldi, tanto per dire...
Bisognava mettere la carne sotto sale, per conservarla. Papa faceva quei sebber ..., cosi si chiamano in piemontese; era rotondo, di 20 cm di apertura, e andava giù fino a 30, lì si metteva un filo di carne, di sale grosso, pepe e un po' di sapori, aglio, e poi un altro pezzo di carne e poi sempre avanti così, finché uno ne aveva. Poi si metteva in cantina, che fosse al fresco. Come la prendevi, era rossa, proprio qualche cosa di bello! Profumata e morbida, una cosa proprio bella. E la mamma, perché noi eravamo tutti bambini, la metteva come il merluzzo, la metteva nell'acqua già la sera prima, perché non fosse tanto salata per noi. Oh, un tran-tran per dare da mangiare!
Noi ci nutrivamo di quello che c'era in casa: le patate, poi c'era il grano, dal grano si faceva la farina; la mamma faceva sempre il pane, nove o dieci pani; avevamo la paniera, si portava a cuocere lì; il mulino era in Galambra e il forno era dalla Lidia, dagli Abbà, lì sotto. E mi toccava portare il pane, e portare dieci pani su un pezzo di legno, insomma, una bella paniera che aveva fatto il mio papa, più di una volta le ho dato il giro! Perché i pani erano tutti piegati in una tela di casa, non si poteva partire da Sant'Antonio, andare giù in piazza solo così; doveva essere tutto ben sistemato. Quando uno è giovane!... Bisognava tenere su così il braccio, eh, altrimenti ti va giù! Bisogna portarlo sulla spalla, e non tenerlo con due mani, no, no. Mica facile, eh? Una volta o due sono arrivata giù, laggiù davanti, poi, brrmmm! Tutto per terra! Lì c'erano delle donne, perché eravamo in tanti. Sette o otto sempre. Mi aiutavano, poi, a tirare su. E io, zitta zitta, non osavo dirlo a casa che avevo combinato anche quella. Avevo quattordici anni, quel periodo lì, quando sono nati quei fratelli.
Mia mamma mi ha insegnato anche a me, per carità, a fare il pane. Mettevamo il lievito, e il lievito si tramandava da una famiglia all'altra, anche, sa? Lo mettevamo in un grilet, era un affare di ferro, ma smaltato di bianco, sa? E da famiglia in famiglia si girava perché fosse sempre fresco; perché, se lo tieni lì quindici giorni, poi metteva la crosta, non era più buono. Ogni famiglia lo prendeva tutto; si pesava sempre; mia mamma lo pesava sempre. Lo prendeva, lo pesava. Due chili fa? Dobbiamo di nuovo metterne due chili. Sa? La cosa era... Si camminava tutto bene, tutto giusto. Due chili? E allora lei, quando era tutto pronto, mi diceva: "Prendi, prendi il peso, mettiamo lì; questo è già lì, metti via. Il resto è tutto per noi". E un'altra donna faceva anche così, e avanti così...
Era un pezzo di pane lievitato; si metteva lì, con un misurino di mezzo litro di acqua un po' calda, alla sera prima, si faceva già il lievito. La mattina dopo, ce n'era pieno un mai e lì si tirava su e si faceva il pane; poi si metteva là da portare giù. A volte, se c'era il papa, lo portava lui; ma, fare perdere tempo al papa, se lavorava? Non si poteva! E allora dovevo farlo io.
E' come dare l'acqua alla vigna. L'acqua alla vigna l'ho data che avevo quattordici anni. La prima volta è venuta la mia mamma a insegnarmi, è proprio quell'anno che è nato Franco; Franco è nato a maggio e a giugno-luglio, verso San Pietro, si dava l'acqua alla vigna. Ma non ero capace: se muovevo un braccio, non ero capace a far andare l'altro. Per papa che lavorasse! Altrimenti perdeva tempo, se andava a lavorare al Champbons!
Ma ce n'erano tante di ragazze, di donne che facevano questi lavori da uomo, che tagliavano anche il fieno, se gli uomini andavano a lavorare. Eravamo in tante, avevo tante amiche! Il mese di maggio, tutte le sere, si facevano in fretta i lavori, per uscire, e purtroppo ne avevo sempre uno dietro dei miei fratellini, non potevo scappare da sola. E si andava, tutto il mese, al rosario; c'era il parroco, don Barella, oh, che brave persone! Alle otto, dopo cena, poi dopo, lì, tutti fermi in piazza a chiacchierare, a fare un po' di veglia... E poi, dovevo venire di nuovo a casa, a portare il bambino a dormire, come Franco, ma l'ho sempre portato in chiesa. E' nato a maggio, ma, di lì, tutti i mesi di maggio li ha fatti.
Poi è venuto Livio, ancora: dove lo lasciamo quello là? Il 13 Febbraio del '55 lui, io avevo ventidue anni, poteva essere mio figlio. Tanti miei coscritti erano già padri e madri, e io ho avuto mio fratello. Ma non mi sono mai vergognata, a dire la verità, anzi! Mi sono tirata su le maniche e ho aiutato la mamma. Le ho proprio fatto forza. Ho detto: "Mamma, non aver paura! Ci sono io". Mia mamma aveva quarantasette anni. Non lo aspettava mica, eh, pensava che fosse la menopausa. Ma era forte, era una cosa tremenda, una donna... Noi siamo in sette, ma non so se ce n'è uno che le assomigli; un po' Franco, come persona, mah! Fortissima! Molto gentile, si aiutava tutti; se sapeva che qualcuno aveva problemi, lei era sempre la prima a partire, sempre, sempre.
Perché il papa, dato che faceva il falegname, qui nei nostri paesi, quando qualcuno moriva, bisognava fare tutto, sa? Lei era sempre pronta. E quando non poteva lei, partivo io. Io ne ho portati nei lenzuoli, che non scendevano dalle scale, nelle nostre case; io e mio papa, coi congiunti, e c'era anche mania Norma. Nessuno dei miei fratelli ha fatto quello che ho fatto io, loro sono nati tutti dopo, è già stata tutta un'altra vita, un'altra cosa.
Livio è stato una gioia, era tanto piccolino. Io lo chiamavo: Pipi, Pipi, l'avevo sempre con me, come l'ho ancora al giorno d'oggi. Posso dirlo anche forte: ho tre fratelli, ma non posso dimenticarli, eh, e loro non dimenticano me. E' quella la faccenda! Loro sanno cosa ho fatto per loro.
Perché io, poi, verso i vent'anni, ho incominciato anche ad andare a fare qualche lavoretto, non si poteva mica solo stare in casa. I primi lavori, ho incominciato a andare a lavare di qua e di là, anche a lavare lì, persi Cavaliere, quando avevano la trattoria; facevano il bucato, che durava due o tre giorni, prendevano delle donne. Sono stata anche giù dagli Abbà. E poi ho fatto anche le pulizie. Si andava nelle case, di qua e di là, anche negli alberghi; c'erano anche altre ragazze, quando c'era un pranzo da servire, come il pranzo dei Pompieri, il 4 Dicembre.
Poi ho incominciato il primo lavoro e sono andata a Chiomonte, a lavare il merluzzo, alla Piemontese. Io e Odiard Fedelina siamo partite: giù col pullman delle 7 fino a Chiomonte, poi si tornava indietro fino al merluzzo; lì si lavorava il merluzzo per otto ore; si ritornava a casa a piedi, perché il pullman passava poi alle 7 o alle 8 di sera; per 80 Lire l'ora, senza guanti e nell'acqua gelata. Sarà stato il '55 o il '56, d'inverno, quando è nato Livio. Solo d'inverno ci prendevano, perché noi eravamo solo forestieri e allora, i forestieri... e l'abbiamo fatto per diversi mesi. E sa cosa vuoi dire venire su, bagnati, sporchi, una puzza addosso! Freddo, neve, e il ponte non era come adesso. C'era l'altro vecchio. Io e Fedelina l'abbiamo fatto quasi in ginocchio, il vento che c'era, non si poteva traversare! Una tormenta! Il vento che tirava lì tagliava proprio la valle. Io e Fedelina, sì! Infatti, di quella donna la ho proprio un bei ricordo, mi ha aiutato molto! Io ero ben più giovane, eh!
Era tanto per comprarsi qualche cosa, un vestito, un paio di scarpe, senza chiedere ai papa... E non bastava andare a lavorare qui, nelle nostre trattorie, perché era una volta ogni mese, ogni quindici giorni, non si poteva...
E il papa lavorava molto, lavorava anche dopo cena. E' che a quell'epoca là non pagavano, facevano magari fare un tavolo, un buffet e poi, eh, va' a vedere, pagavano poi, o un po' alla volta... E uno che ha una famiglia non può.
E poi ho incominciato ad andare negli alberghi, attorno al '58; il fratello, l'ultimo, era già grande...
Ha incominciato Salice d'Ulzio a fare furore; ha incominciato poi di lì. Lì c'erano anche altre ragazze del Cels, qualcuna del Champbons, e allora abbiamo detto: "Andiamo un po' a vedere come vanno gli affari su di là!". E siamo partite.
Siamo andate a chiedere chi da una parte, chi dall'altra... Si faceva così. Per Natale, si incominciava all'8 Dicembre; c'era anche la festa di Sant'Ambrogio milanese, che a quell'epoca là incominciavano già a venire. Fino all'Epifania, senza venire a casa. Ci davano tutto: vitto, alloggio e la paga. Si poteva anche andare a ballare, al sabato sera, quando si poteva scappare. E lì era già 1000 Lire al giorno, pulite. Hanno solo incominciato in quegli anni lì a fare quegli alberghi; prima non c'era niente. Bardonecchia non c'era ancora niente, infatti Salice d'Ulzio dev'essere uno dei primi come stazione invernale.
Io ho servito Mike Bongiorno a tavola; io ero all'Hotel Savoia, bellissimo, grande; i proprietari erano i Debili. Ho servito Mike Bongiorno, e poi c'era la principessa Paola Ruffo di Calabria, che ha sposato Alberto di Liegi, con la sua mamma. Erano tutte e due ospiti lì, con tanto di bagagli, all'Hotel Savoia.
Io facevo un po' di tutto. La mattina si facevano le stanze; a mezzogiorno bisognava servire a tavola; se avevano bisogno in cucina, bisognava scendere sotto a lavare pentole, al pomeriggio; io lo facevo volentieri, sempre. Non c'erano macchine da lavare i piatti, niente, tutto a mano... Avevano degli uomini, però, quando c'era gente, bisognava saltare giù noi donne.
E allora, cosa facevo: quando arrivavo a casa, con quei quattro soldini... compravo un paio di scarpe a uno, una camicia all'altra. Si comprava tutto a Susa; no, a Salice no, era già troppo caro in quegli anni là! Non si poteva per noi. Si andava a Susa, al mercato, al martedì. Le prime cose da festa per i miei fratelli le ho comprate io. Le mie prime due sorelle non han potuto studiare, come me. A mia sorella Rosa piaceva molto studiare. Senza avere niente, lei sapeva dirti tutta la geografia, tutto il mondo, a forza di leggere libri. Lei teneva il bambino della maestra Bianco, e allora quella maestra la faceva studiare, la aiutava molto. Prima cosa, be', non si poteva in casa; ma poi, non c'era la stazione, non c'era niente, non avevamo niente, solo un pullman alla mattina e uno alla sera.
Invece, poi, con Laura, c'era già il treno che si fermava alla stazione, e allora lei è andata su a Ulzio. Prima non c'era la fermata, c'erano solo i binari. Non so se è del '47, mi sembra: è andata la banda a suonare, quando si è fermato il primo treno, bandiere, hanno fatto festa. Si può ringraziare ancora sempre il Cavaliere, se hanno fatto questo; altrimenti non avevamo la stazione; è stato una persona molto, molto brava per la popolazione.
E gli altri tre fratelli sono andati tutti a Ulzio a scuola.
Mi sono sposata a trentatre anni.
Sono andata a lavorare anche a Graverò, giù alla IVA, una fabbrichetta; è stato l'ultimo posto dove ho lavorato: dal '63 al '67, tre anni e mezzo. Prima ho lavorato cinque anni al Vivaio di Salbertrand. Ho lasciato Sauze perché era solo stagionale; a un certo punto ci mandavano a casa, ci tenevano solo quando c'era molta gente. A quell'epoca là, non era come adesso che c'è sempre lavoro...
I forestieri erano sempre svantaggiati, forestieri anche tra Exilles e Chiomonte o tra Exilles e Salbertrand. Non che uno dovesse sottomettersi, ma sempre i lavori più difficili... Si lavorava con le ragazze di Salbertrand: loro erano sempre là, comode, e noi dovevamo fare altri lavori, più difficili. Quella casa del Vivaio, be', io con Maria, là, del Champbons, l'abbiamo fatta quasi tutta noi donne. Si portava il buiol, lì, col cemento, con un bastone dentro, una per parte, perché una sola non ce la faceva ad aiutare i muratori; quasi sempre noi, donne forestiere, non le ragazze di Salbertrand: quelle là erano sedute, non si muovevano mica! Se volevi lavorare tutto l'anno. Altrimenti, anche lassù, era solo a stagione, mentre quelle del posto stavano tutto l'anno. Se c'era qualche lavoro più pesante, toccava a noi. Nessuno ti diceva niente, ma tu sapevi che dovevi fare così.
Da quando ero giovane io, adesso lo vedo bene il paese, lo vedo meglio, per carità! Non c'è più quella... Oh, per carità! Quello che vedo, quello che so, quello che sento mi sembra che sia già... Oh, per carità!
Il pane non è mai mancato. Il necessario c'era sempre, questo sì. Ancora in tempo di guerra, che non c'era il pane e mamma faceva gli gnocchi: avevamo la farina, le patate. Il latte c'era. Minestre, il vino si faceva, quel poco, ma tanto noi bambini non lo si beveva. Le bestie: agnellini, caprette, conigli, galline, le uova. Era solo dura la vita e ci mancava il denaro. E allora, se volevi comperarti qualche cosa, dovevi sacrificarti.
Per quel che riguarda la lingua, adesso per Exilles son ben pochi quelli con cui riesco a parlare in dialetto.
Il bello è che in casa si parlava il dialetto: io, il papa e la mamma; e, coi fratelli, il piemontese; mai una volta che abbiamo parlato in dialetto agli altri. Sembrava che... non so. E io a mio papa, ancora fino agli ultimi tempi, non ero capace a parlare piemontese! Dovevo parlargli in patois, perché, se no, non era ben detto. Le prime parole che mia mamma mi ha detto, appena nata, son state in patois. Eh, sì, si. E anche mio papa, sempre in patois.
Poi, siamo andati in Francia e là ho incominciato io; ho imparato prima della mamma a parlare in francese. Difatti, la prendevo per mano e la accompagnavo nei negozi, perché parlavo più di lei, all'asilo si imparava subito il francese. E' quando sono arrivata qua che è stato duro! Perché quell'italiano! Non andava, non andava, bah! E poi, piano, piano... Eh, il patois lo parlavo, ma l'italiano no. E' questa la faccenda!
E tutti, tutti c'è da dire parlavano il patois in paese. Si, tutti noi del posto. E anche quando andavamo a Ulzio o a Susa, parlavamo patois con la gente del posto. Ci capivamo tutti, anche se era molto diverso. Ancora in su, tanto quanto, quello di Oulx si capisce, è già più simile. Però, se va a prendere il patois di Chiomonte o di Gravere... niente! Quello di Graverò, poi, niente? Quello di Chiomonte, qualche cosetta.,. Su nella vallata, cambiano delle parole, però... Io, per esempio, parlo in patois con la Rita, che è del Chateau.
Si è perso perché qua, Exilles, era tanto popolato, e poi c'erano due qualità: chi parlava già piemontese e chi patois. E chi parlava piemontese era un po' più su Dicevano sempre che Exilles doveva diventare "città": c'erano sette o otto alberghi, soldati, Carabinieri. Era bella, allora, Exilles.
 

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La tesi (Cultura Occitana e riscoperta: il caso dell'Alta Valle di Susa) di Anna Maria Decorte è costruita con interviste di gente o di esponenti della vita politico-culturale dell'Alta Valle di Susa. Tesi di Laurea, Università  degli Studi di Torino, Facoltà  di Scienze Politiche (2005-2006), Professor relatore Emanuele Bruzzone.